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Il 20 ottobre è la scadenza fissata per l’invio all’Agenzia delle Entrate dei dati di dettaglio relativi al canone TV del mese precedente, un adempimento che lega strettamente il mercato dell’energia al finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo. Per comprendere a fondo il lo schema di funzionamento di questo tributo, è essenziale ripercorrere la storia del canone Rai, che affonda le sue radici in un’epoca in cui la televisione era ancora fantascienza.

La storia del canone inizia ufficialmente nel 1938, sotto il regime fascista, quando fu introdotta una “tassa sulla radio” per finanziare l’allora Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR). L’importo, un balzello annuale, era richiesto a tutti i possessori di un apparecchio radiofonico e serviva anche a tenere un registro degli stessi. All’epoca, si trattava di una delle prime forme di finanziamento per un servizio di comunicazione di massa, un modello che sarebbe stato replicato in molti altri Paesi europei.

Con la nascita della televisione nel dopoguerra, il canone fu esteso anche ai televisori e, nel 1961, fu formalmente ribattezzato “imposta sulla televisione”. Negli anni, il metodo di riscossione si basava sull’invio di bollettini postali o F24, un sistema che, con la crescente diffusione degli apparecchi, si rivelò sempre più inefficiente e facile da eludere. L’obbligo era legato alla semplice detenzione di un apparecchio televisivo, indipendentemente dall’effettivo utilizzo o dalla visione dei canali Rai. Questo principio, in contrasto con la percezione comune, ha generato a lungo incomprensioni e polemiche.

La svolta del 2016: lotta all’evasione e le ragioni di un cambiamento epocale

Nel corso del tempo, il canone TV è diventato uno degli argomenti più controversi nel panorama fiscale italiano. Le stime del governo sull’evasione erano allarmanti, con un tasso che si aggirava intorno al 25% del totale. Questa situazione non solo comportava una significativa perdita di gettito per lo Stato e per la Rai, ma creava anche un forte senso di iniquità tra i cittadini che pagavano regolarmente e coloro che, eludendo il tributo, beneficiavano comunque del servizio pubblico.

Fu il governo Renzi, nel 2016, a prendere una decisione radicale e senza precedenti per risolvere il problema. Con la Legge di Stabilità 2016, si decise di inserire il canone direttamente nella bolletta dell’energia elettrica. La logica dietro questa scelta era semplice ed efficace: quasi ogni famiglia italiana ha un contratto di fornitura elettrica, e si presume che in ogni casa ci sia almeno un apparecchio televisivo. Legare il pagamento a un servizio essenziale come l’elettricità rendeva l’evasione virtualmente impossibile.

Questa riforma non fu solo una misura di lotta all’evasione, ma anche un tentativo di renderne il pagamento meno oneroso per le famiglie. L’importo annuale fu ridotto da 113,50 a 90 euro e il pagamento fu dilazionato in rate mensili sulle bollette. L’obbligo di riscuotere il tributo e di versarlo allo Stato fu affidato alle imprese elettriche, che divennero a tutti gli effetti esattori fiscali. Il Decreto del Ministro dello Sviluppo Economico n. 94 del 13 maggio 2016 ha formalizzato questa procedura, stabilendo i criteri e le modalità di addebito, accredito e versamento.

Dissenso e accettazione: la percezione del canone in bolletta da parte dei cittadini

L’introduzione del canone in bolletta ha scatenato un vivace e acceso dibattito pubblico. Da un lato, il governo ha celebrato il successo della misura, sottolineando la drastica riduzione dell’evasione e l’aumento del gettito fiscale. Dall’altro, una parte considerevole della popolazione ha manifestato un forte dissenso. Per molti, la bolletta elettrica è diventata un “cavallo di Troia” per una tassa percepita come ingiusta, soprattutto da chi non guarda la televisione o utilizza i servizi Rai.

Il dibattito ha sollevato questioni profonde sulla natura del finanziamento del servizio pubblico: è giusto che tutti paghino per un servizio che non utilizzano? La legge, in realtà, è chiara: l’obbligo di pagamento è legato al possesso di un apparecchio atto a ricevere il segnale televisivo, non al suo effettivo utilizzo. Questo include anche dispositivi come smart TV o laptop. L’unico modo per non pagare è dimostrare di non possedere alcun apparecchio e inviare una dichiarazione sostitutiva all’Agenzia delle Entrate, una procedura che ha richiesto, e richiede tuttora, un’attenta comunicazione da parte delle istituzioni.

Oggi, il processo è standardizzato, ma la percezione di questo tributo continua a dividere. Per le imprese elettriche, l’adempimento è una routine consolidata: ogni mese devono inviare all’Agenzia delle Entrate i dati dettagliati relativi al canone addebitato e riscosso. L’invio, che deve avvenire in via telematica tramite i servizi Entratel o Fisconline, rappresenta il punto culminante di un processo che ha trasformato radicalmente il sistema di riscossione di uno dei tributi più longevi e controversi della storia italiana.